Parlare di terra piatta significa ricollocare l’uomo al vertice della creazione. Si tratta di Terra piatta e antropocentrismo. La terra cessa di essere un granellino di polvere che si perde via via in un universo ogni giorno più grande e più lontano. Ci si immette di nuovo in un sistema fatto a misura d’uomo. Eliocentrismo e darwinismo ci avevano tarpato le ali mentre ora ci si ritrova a volare. Si ritorna ad essere in armonia con il tutto e consapevoli della propria posizione.
Parlare di autoconsapevolezza è come parlare di coscienza, un tratto comune a tutti gli uomini. Il filosofo tedesco Immanuel Kant aveva espresso questo senso di integrazione dell’uomo con l’universo con parole memorabili. Aveva scritto: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre crescente, quanto più spesso e più a lungo se ne occupa: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me.” Per Kant si tratta qui di relazionare l’intimo dell’uomo, la sua ragione morale, nella cornice dell’universo.
Egli parlava di una legge morale impressa nel suo “dentro”. Cos’è questo se non la coscienza? Un giudice interiore che mi esamina e immediatamente mi approva o mi accusa. Le Scritture nella lettera ai Romani (2:14-15) mostrano che la sostanza della legge è scritta nei nostri cuori come un navigatore morale incastonato dentro.
“Poiché tutte le volte che quelli delle nazioni che non hanno legge fanno per natura le cose della legge, questi, benché non abbiano legge, sono legge a se stessi. Essi sono i medesimi che dimostrano come la sostanza della legge sia scritta nei loro cuori, mentre la loro coscienza rende testimonianza con loro e, nei loro propri pensieri, sono accusati oppure scusati.”
Terra piatta e antropocentrismo
Aristotele parlava di pensiero di pensiero, la sua celebre definizione di Dio. In Lui, Dio, c’è un massimo di consapevolezza. Partiremo in modo un po’ defilato dai nostri temi soliti e prenderemo in considerazione il primo testo di letteratura italiana di cui si conosca il nome dell’autore, il Cantico delle creature che Francesco d’Assisi scrive per lodare Dio del sole, della luna, delle stelle…Di lì in poi, ci si immagina forse che la poesia italiana prenda il largo verso una consapevolezza sempre maggiore. Ma non è detto che ciò avvenga in termini positivi, nel senso di un crescente senso di felicità…

Parlando di autoconsapevolezza dell’universo, leggiamo poi anche una poesia di Montale e la confrontiamo con il Cantico agli albori della letteratura italiana. La poesia di Montale è presa dalla sua ultima opera, “Altri Versi”, in cui il poeta, ormai ottantenne, si esprime su questo concetto, la natura e la sua autocoscienza. Solo che l’uomo sembra esserne privo.
E’ probabile che io possa dire io/con conoscenza di causa/ sebbene non possa escludersi che un ciottolo,/ una pigna cadutami sulla testa/ o il topo che ha messo casa nel solaio/ non abbiano ad abundantiam quel sentimento/ che fu chiamato autocoscienza. E’ strano/ però che l’uomo spenda miracoli d’intelligenza/ per fare che sia del tutto inutile/ l’individuo, una macchina che vuole/ cancellando ogni traccia del suo autore./ Questo è il traguardo e che nessuno pensi/ ai vecchi tempi (se mai fosse possibile!).
Invece Francesco d’Assisi scriveva più semplicemente: Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Il Cantico delle creature (1224) presenta una visione antropologica che in Montale si è persa. Questo legame tra uomo e ambiente, che le scienze moderne hanno cercato almeno parzialmente di recuperare, e sta alla base delle rivendicazioni ecologiste, trova una corrispondenza nella visione francescana e cristiana del creato. E’ una preghiera permeata da una visione positiva della natura, poiché nel creato è riflessa l’immagine del Creatore: da ciò deriva il senso di fratellanza fra l’uomo e tutto il creato, che molto si distanzia dal senso di angoscia che nel XX secolo è diventato sentimento generalizzato e comune. La creazione diventava un mezzo di lode al Creatore che è la mente consapevole del tutto.
Nel corso degli ultimi due secoli la poesia è diventata sempre più pessimista, incapace di trovare ragioni di speranza nell’esistenza sulla terra. Da Leopardi, a Nietsche, a Montale il passo è breve. Dio è morto per tutti quanti.
E’ vero che già i primi filosofi greci si erano avvicinati innanzitutto allo studio della natura. Tuttavia non avevano mai ritenuto i fenomeni naturali come il prodotto del caso o derivati da una divinità arbitraria. La divinità non veniva negata anche se spesso veniva considerata impassibile o inattiva. Con Nietsche tutto cambia. Dio è dichiarato morto e, nonostante i tentativi del superuomo, la disperazione si diffonde inarrestabile.
Nel corso di una conferenza che si terrà domenica 26 gennaio alle 15 a Saluzzo presso lo Spazio culturale piemontese di Corso Roma 4, cercheremo di capire come si è svolto questo lungo processo di laicizzazione del pensiero che portò, dai primi filosofi greci a Darwin, a Nietsche e a estromettere Dio dal nostro mondo. Per far questo partiremo da Copernico e da lui faremo marcia indietro tramite Eudosso, Aristotele, Tolomeo e l’Almagesto. Faremo questo poi ancora in puntate successive, per cui ci arriveremo gradualmente.
Un aspetto che accomuna le più rilevanti posizioni filosofiche occidentali apparse prima della metà del XX secolo è la tendenza ad assumere una prospettiva human-centered, incapace cioè di decentrare l’attenzione dagli esseri umani.
Un primo esempio di concezione antropocentrica si ha nel V secolo a.C. con Socrate e i sofisti. I filosofi pre-socratici si interessavano principalmente della natura circostante. Con Socrate e i sofisti, invece, l’attenzione si sposta sull’uomo. Si diceva che l’uomo è la misura di tutte le cose, ponendo quindi l’essere umano come criterio al centro dell’universo. Conosci te stesso, diceva Socrate, proprio indicando la superiorità della conoscenza dell’uomo stesso rispetto alla conoscenza della natura. Dopo questi filosofi, tutti si occuparono di studiare l’uomo, quasi tralasciando lo studio di come fosse nato l’universo, argomento di cui si erano occupati tutti i filosofi presocratici.
Col termine rivoluzione copernicana si intende la svolta nella concezione dell’Universo propugnata da Niccolò Copernico, fautore della moderna teoria eliocentrica del sistema solare. Questa teoria pone il Sole al centro del sistema di orbite dei pianeti e si contrappone a quella geocentrica, o tolemaica, che prevedeva invece la Terra al centro del sistema solare. La teoria di Copernico, fu pubblicata nel libro Delle rivoluzioni dei mondi celesti nel 1543, l’anno della sua morte. Il libro è il punto di partenza di una conversione dottrinale dal sistema geocentrico a quello eliocentrico e contiene gli elementi più salienti della teoria astronomica ancora oggi accettata.
Con Socrate, per la prima volta in storia della filosofia, ci si sofferma sul problema dell’autocoscienza, ovvero la riflessione della mente umana su di sè. Socrate era convinto di non sapere, ma proprio questo fatto di non sapere lo rendeva il più sapiente di tutti. Questo è un atteggiamento applicabile anche nella ricerca scientifica. Conosci te stesso: solo la conoscenza di sè e dei propri limiti predispone l’uomo alla ricerca,lo rende sapiente, incline alla virtù e lo mette in grado di vivere una vita morale.
Numerosi pensatori, da Socrate a Cartesio, sottolinearono l’importanza di approdare a se stessi prima di iniziare l’indagine delle verità assolute. Centrale risulta la domanda se la conoscenza sia un atto di libertà o un meccanismo automatico. Bella domanda, che arriva a gettare riflessi sulla natura stessa dell’uomo e dell’universo. Perchè? La nostra mente non è la nostra autocreazione, ma il frutto di un’eredità esterna che ci viene attribuita dal di fuori, e che ci può spingere a comprendere la realtà intorno a noi come sacra.
Di dove arriva questa capacità dell’universo di produrre una mente come quella dell’uomo? Aristotele parla di pensiero di pensiero, opera dell’intelletto attivo.
Il pensiero è definito “la piú divina delle cose che fra noi si manifestano”. Perciò in sintonia con la sua natura divina, esso è in grado di arrivare a Dio, il quale è definito come “pensiero che non pensa a nulla di inferiore a se stesso”. Si tratta della celebre definizione aristotelica di Dio come “pensiero di pensiero” (nóesisnoéseos).
Per Aristotele si tratta di un processo che avviene per gradi. In una prima fase l’intelletto è passivo, basato sui sensi, automatico, ma poi interviene quello attivo che è pensiero di pensiero, capace di raggiungere l’autocoscienza, di percepire non solo se stesso ma l’universo intorno a sè. Fino alla percezione di una luce spirituale. Ciò che è luminoso è la mente. Noi possiamo vedere la luce per via della nostra mente e questo è un processo nella libertà. La nostra mente è suscettibile di sviluppo.
Il Buddismo vede la mente come luce: La mente è più radiosa di qualsiasi altra cosa. La cosapevolezza è di per sè invisibile, infinita e luminosa. Quando questa cessa, cessano nome e forma. Cessa anche la memoria.
È la luce della consapevolezza che rende le cose preziose e straordinarie. E allora le piccole cose non sono più piccole. Quando un uomo, con attenzione tocca un comune sassolino sulla spiaggia, quel sasso diventa un diamante. E se tu tocchi un diamante in stato di inconsapevolezza, diventerà una comune pietra o nemmeno quella.
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