Ricevere un’investitura significa diventare idonei per un incarico importante. Ma nella parabola di Gesù a ricevere l’investitura apparentemente sembrerebbe essere la persona meno qualificata. La parabola del figliol prodigo la conoscono tutti. Il figlio maggiore torna stanco dal lavoro nei campi e arrivando sente in casa la musica di una festa. Appena capisce di cosa si tratta, si arrabbia e non vuole più entrare nella casa del padre. Luca scrive semplicemente: Ma egli si adirò e non voleva entrare. In definitiva, dal suo punto di vista, era convinto di avere ragione.
Simboleggia il rimanente
Era stato sempre un figlio ubbidiente, irreprensibile sotto ogni punto di vista. Suo fratello invece era uno che aveva vissuto fuori dalle regole morali, sperperando i beni ereditari. Non si sa se quel figlio deciderà ancora di entrare in quella casa. Credo proprio di no. Lui è di quelli che rifiutano di partecipare al banchetto di Luca 14:16. Matteo scrive del re che avendo preparato una festa mandò a chiamare i propri invitati: “Venite alla festa nuziale. Ma senza curarsene essi se ne andarono uno al proprio campo e un altro al suo commercio.” Matteo 22:4-5
Il padre comunque si rallegra e fa festa perché il figlio perduto è ritornato. Il primo comando del padre riguarda il vestito più bello, non un vestito qualsiasi, ma quello della festa. Nella Bibbia il vestito è spesso il riconoscimento ufficiale di un incarico. Il figlio della parabola meritava solo disprezzo, ma il padre togliendogli gli stracci di dosso e rivestendolo del vestito migliore gli conferisce dignità e onore ed esalta quel figlio ad una posizione talmente invidiabile da ingelosire il fratello per bene.
Il figlio più giovane rappresenta il rimanente del popolo di Dio che depone le vesti dell’afflizione e del cordoglio per rivestirsi di un abito finalmente decoroso. Egli può così presentarsi al banchetto nuziale con una veste appropriata. Riceve in questa occasione un incarico di notevole prestigio: sarà coerede, un principe accanto al Messia, nel suo Regno millenario.

Un banchetto nuziale
Oggi la situazione è che gli eletti, i cosiddetti chiamati, sono gente reietta, persone che hanno per così dire “sperperato” la vita lontano dal Padre, ma che ad un certo punto si ravvedono tanto da ritornare. La situazione è simile a quella descritta in Matteo 22:11-12 di un uomo che aveva organizzato un banchetto serale a cui gli invitati tutti non si erano presentati. Allora aveva detto ai suoi schiavi:
‘La festa nuziale in realtà è pronta, ma gli invitati non ne erano degni. Andate perciò nelle strade che conducono fuori della città, e invitate alla festa nuziale chiunque troviate’. E quegli schiavi andarono nelle strade e radunarono tutti quelli che trovarono, sia malvagi che buoni; e la stanza delle cerimonie nuziali era piena di persone che giacevano a tavola.
“Il re, essendo entrato per esaminare gli ospiti, vi scorse un uomo che non indossava una veste nuziale. E gli disse: ‘Amico, come sei entrato qui senza veste nuziale?’ Egli restò senza parola. Allora il re disse ai suoi servitori: ‘Legategli mani e piedi e gettatelo nelle tenebre di fuori. Là sarà il [suo] pianto e lo stridore dei [suoi] denti’.
Sappiamo che Gesù si rivolse spesso agli ultimi come a quelli che sarebbero entrati per primi nel regno. Le prostitute e gli esattori di tasse, egli disse, avrebbero mostrato più fede di tante persone per bene.
Un uomo aveva due figli
“Che ne pensate? Un uomo aveva due figli. Avvicinatosi al primo, disse: ‘Figlio, va a lavorare oggi nella vigna’. Rispondendo, questi disse: ‘Vado, signore’, ma non vi andò. Accostatosi al secondo, disse la stessa cosa. Rispondendo, questi disse: ‘Non voglio’. Poi si rammaricò e vi andò. Quale dei due fece la volontà del padre?” Essi dissero: “Il secondo”. Gesù disse loro: “Veramente vi dico che gli esattori di tasse e le meretrici vanno davanti a voi nel regno di Dio. Poiché Giovanni è venuto a voi nella via della giustizia, ma non gli avete creduto. Comunque, gli esattori di tasse e le meretrici gli hanno creduto, e voi, benché abbiate visto [questo], non vi siete poi rammaricati in modo da credergli. (Mt 21:28-31)
‘Presto, portate una lunga veste, la migliore, e vestitelo, e mettetegli un anello nella mano e sandali ai piedi.’ Paolo Farinella, in un articolo citato al fondo di questo post scrive:” È qui l’avverbio iniziale che dà il senso del precipitare degli eventi e della frenesia del padre e di tutta la casa nell’accogliere il figlio appena ritornato. Il padre rende vere sulla bocca del figlio le parole del salmo 30:11 che legge: “Hai cambiato il mio cordoglio in danza per me; hai sciolto il mio sacco, e mi tieni cinto di allegrezza.”
Rallegratevi con me
Con questa accoglienza il padre condivide la stessa gioia degli altri due personaggi dello stesso capitolo: il pastore che ha ritrovato la pecora: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta» (Lc 15:6); e quella della donna che ha ritrovato la moneta: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduta» (Lc 15:9). Gli atteggiamenti e le parole sono identici.”
Luca scrive: “Or tutti gli esattori di tasse e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. Quindi i farisei e gli scribi brontolavano, dicendo: “Quest’uomo accoglie i peccatori e mangia con loro”. Allora egli pronunciò loro questa illustrazione, dicendo: “Chi è fra voi l’uomo che, avendo cento pecore, se ne smarrisce una non lascia le novantanove nel deserto e non va in cerca della smarrita finché non la trovi? E, trovatala, se la mette sulle spalle, rallegrandosi.
E giunto a casa, raduna gli amici e i vicini, dicendo loro: ‘Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era smarrita’. Vi dico che così ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si pente che per novantanove giusti che non hanno bisogno di pentirsi. “O quale donna che ha dieci dramme, se smarrisce una dramma, non accende una lampada e spazza la casa e la cerca attentamente finché non la trovi? E, trovatala, raduna le amiche e le vicine, dicendo: ‘Rallegratevi con me, perché ho trovato la dramma che avevo smarrito’. Così, vi dico, c’è gioia fra gli angeli di Dio per un peccatore che si pente”. (Lc 15:1-10)

Una moglie prostituta
Il padre della parabola non permette al figlio di prostrarsi e finire la sua confessione, ma lo precede con il suo amore per introdurlo a una nuova vita. Egli è il vero erede del profeta Osea che continua ad amare la moglie Gomer, nonostante sia scappata tre volte per fare la prostituta. ““Va, prenditi una moglie di fornicazione e figli di fornicazione, perché mediante la fornicazione il paese si distoglie positivamente dal seguire Geova”. (cf Os 1:1-9; 3:1-5). Dopo averla rincorsa e trovata circondata dagli amanti, aveva il diritto di applicare la legge e comminare una sentenza di morte (Lev 20:10).
Il profeta Osea, invece, si pone su un altro piano e travolge di tenerezza la moglie/prostituta, prima ancora che lei apra bocca o esprima il suo pentimento: “E di sicuro mostrerò misericordia a colei alla quale non fu mostrata misericordia, e certamente dirò a quelli che non sono mio popolo: “Tu sei il mio popolo”; ed essi, da parte loro, diranno: “[Tu sei] il mio Dio”’”. (cf Os 2:23). Avendo in mente proprio noi che viviamo negli ultimi giorni, Osea 3:5 legge: “In seguito i figli d’Israele torneranno e certamente cercheranno Geova loro Dio, e Davide loro re; e di sicuro verranno tremando a Geova e alla sua bontà nella parte finale dei giorni.”
Perdere e ritrovare un oggetto prezioso
Sulla scia del profeta Osea, anche Gesù offre il perdono di Dio prima della conversione, prima della stessa richiesta: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rom 5:8-10). Il padre, con questo comportamento, condivide la stessa gioia degli altri due personaggi della parabola precedente nello stesso capitolo: del pastore che ha ritrovato la pecora: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta» (Lc 15:6); e quella della donna che ha ritrovato la moneta: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduta» (Lc 15:9). Gli atteggiamenti e le parole sono identici.
Il comportamento del padre rispecchia lo stesso comportamento di Gesù nei confronti della prostituta che entra in casa del fariseo Simone (Lc 7:36-50). Lo scandalo è enorme: in un consesso di uomini perbene di giorno ma non sempre di notte, l’ingresso della donna è un insulto. La donna che rende impuro tutto ciò che tocca si accucciola ai piedi di Gesù, glieli lava con le sue lacrime e glieli asciuga con i suoi capelli (Lc 7:36-50).
La donna non ha altri gesti che quelli tipici di una prostituta per dimostrare il suo interesse e attenzione all’uomo che la guarda con occhi nuovi e non giudicanti. Di fronte a una tale donna, da cui ogni uomo perbene deve stare lontano almeno due metri, Gesù si lascia toccare e baciare e, in contrasto con l’ambiente circostante, perdona la donna senza nemmeno ricordarle di cambiare mestiere: «I tuoi peccati sono perdonati… La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (Lc 7:48,50).
Il vestito
Il primo ordine del padre riguarda il «vestito più bello» (in greco «il vestito, il primo»), non un vestito qualsiasi, ma quello della festa, quello importante. Da notare che è il padre a vestire il figlio: la dignità di figlio nessuno può darsela da solo, ma può solo essere accolta o rifiutata. Per il vestito nel vangelo di Luca si usano due parole: «imàtion», che vi ricorre 11 volte (Lc 5:36; 7:25; 8:35, ecc.), e «stolê», che si trova solo qui: è una di quelle parole «esclusive» e per questo hanno una importanza particolare.
Il primo termine indica un vestito generico, comune, senza alcuna connotazione particolare. Il secondo invece è il vestito «della dignità», riservato ai ministri, autorità, a chi esercita una funzione pubblica di rilievo. In questi casi la «veste-stolê» indica la dignità della persona che la indossa. Nell’Apocalisse la veste è il segno di riconoscimento dei martiri (Ap 6:11), ma è anche il distintivo della grande folla che nessuno poteva contare (Ap 7:9,13-14) e l’abito di coloro che vogliono mangiare dell’albero della vita (Ap 22:14). Nell’Apocalisse la «veste-stolê» è il segno visibile del popolo che esce dalla grande tribolazione, in cui ora è riammesso il figlio ritornato da «un paese lontano» (Lc 15:13) alla casa del padre che ancora lo ama e lo amerà per sempre.
Preparato per l’occasione
La qualifica del vestito, in italiano, è «il più bello». Il testo greco dice esattamente: «portate il vestito, il primo». Il padre non chiede di rivestire il figlio con un vestito qualsiasi, ma chiede che venga portato «quello che è primo».
L’aggettivo «prôtos-primo» ha due significati: a) può avere valore temporale per cui significa «quello che aveva prima di andarsene» e che è stato conservato; b) può indicare la qualità del vestito, nel senso di «migliore/splendente» e quindi «il più bello»; per cui, qualunque sia il significato, Luca nella parabola si riferisce a qualcosa di non usuale, ma di prezioso.
Per capire il comando del padre che ordina di portare il «vestito, quello migliore», bisogna tener presente che nella cultura mediorientale il «vestito» indica una dignità totale, anzi, moltiplicata: il vestito non solo era il migliore, ma è stato anche conservato per questa occasione, segno che il padre non si è mai rassegnato alla partenza del figlio. I due significati sono intrecciati perché hanno il medesimo senso: reintegrare il figlio nella dignità filiale che il figlio aveva perduto, ma che il padre mai aveva rinnegato; il vestito è il simbolo della dignità filiale, anzi, della pienezza della dignità.
Il rito della vestizione
Di più: è il segno della personalità, perché il vestito è prolungamento del corpo, estensione della persona. Nonostante la partenza, la dignità del figlio, simboleggiata dal vestito, è sempre rimasta in custodia presso il padre: il figlio dilapidava la vita in una terra impietosa e il padre custodiva la dignità del figlio, conservando gelosamente «il vestito, il primo».
Il rito della vestizione è il riconoscimento ufficiale di un servizio, il conferimento di un incarico. Giacobbe per dimostrare l’amore di predilezione che provava per Giuseppe, figlio insperato avuto da Rachele, «gli aveva fatto una tunica dalle maniche larghe» (Gen 37:3). Il faraone per onorare di fronte a tutto l’Egitto Giuseppe, che aveva interpretato i suoi sogni e salvato l’Egitto dalla carestia, «lo rivestì di abiti di lino finissimo» (Gen 41:42).
Per affermare la dignità di Eliakìm, che Dio sceglie al posto del maggiordomo Scebnà, Isaia ci informa che è lo stesso Dio a fare l’investitura ufficiale, per bocca del profeta: «Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto… Chiamerò il mio servo Eliakìm… lo rivestirò con la tua tunica lo cingerò della tua sciarpa e metterò il tuo potere nelle sue mani» (Is 22:19-21). Nel libro di Ester, quando viene scoperto l’inganno di Amàn contro Mardocheo, il re chiama il primo e chiede: «Che si deve fare a un uomo che il re voglia onorare?
Aman disonorato
Amàn rispose al re: “Si prenda la veste (gr. stolê) regale che suole indossare il re… si rivesta di quella veste l’uomo che il re vuole onorare.”» (Est 6:6-9). Qui la veste è un’onorificenza che attesta la benevolenza del re e il suo riconoscimento pubblico a un uomo che agì con giustizia, anche a rischio della vita. Dai testi emerge con chiarezza che il vestito e la sciarpa sono simboli visibili di un’autorità trasmessa e ricevuta, segno di un onore tolto all’uno e concesso all’altro in forza della magnanimità di Dio.
Togliendo gli stracci al figlio e rivestendolo della veste della dignità, il figlio giovane rappresenta il rimanente che finalmente depone «la veste del lutto e afflizione» per rivestirsi dello splendore della salvezza. Il figlio che ha ricevuto la veste della dignità ora può entrare a pieno titolo nella sala delle feste e partecipare al banchetto nuziale. (cf Mt 22:11-12).
L’anello
Ancora oggi il sigillo dei re e dei papi è racchiuso nel simbolo di un anello. Nella bibbia vi sono 3 tipi di anello: a) anello-pendente, b) anello-amo che si mette alle narici delle bestie, ma anche al naso dei prigionieri di guerra come simbolo di sottomissione e c) l’anello da dito (daktýlios), oggetto prezioso che distingue la persona che lo indossa, come si legge nella Lettera di Giacomo: «Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro…» (Gc 2:2).
Qui l’anello è ostentazione di ricchezza, sbattuta in faccia ai poveri, ma anche segno del degrado di una comunità che si adegua ai costumi del mondo. Luca usa questo termine, daktylios, che prende dalla bibbia greca della Lxx e lo usa soltanto qui, per cui diventa anch’essa una parola «esclusiva» con un significato proprio e profondo.
L’anello al dito è segno di distinzione sociale, simbolo di autorità e reputazione di alto rango, un sigillo di potere. Prima ancora di dargli la veste di plenipotenziario, «il faraone disse a Giuseppe: “Ecco, io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto”. Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe» (Gen 41,41-42). Portare l’anello del faraone significa rappresentarlo in tutto il suo regno: «Io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto». Mettere l’anello nella mano di Giuseppe è conferirgli l’autorità del faraone che così prolunga la sua persona in colui che porta il suo anello. Faraone e Giuseppe sono la stessa cosa: ogni decisione che Giuseppe prenderà e sigillerà con l’anello ricevuto, è la decisione del faraone stesso.
L’amministrazione della casa
Il padre che mette l’anello al dito del figlio, non solo gli riconosce la dignità di figlio, ma gli affida l’amministrazione della casa, come suo fiduciario. Mettendo l’anello al dito, il padre di fatto e di diritto reintegra il figlio anche nell’eredità per cui significa che questo figlio, alla morte del padre, può ereditare di nuovo. È un comportamento scandaloso, perché ancora il figlio non sembrerebbe dare alcuna garanzia, ma il padre gli affida la cassaforte di casa. Oggi è come se un padre desse il libretto degli assegni o carta di credito sulla parola e sulla fiducia. L’amministratore di casa conserva l’anello/sigillo con cui compra quanto è necessario alla famiglia: tutti fanno credito perché egli appone il sigillo dell’anello, una garanzia sicura.
Chi ci rimette è il figlio maggiore
Qualcuno potrebbe obiettare: il padre è ingiusto, perché reintegra il figlio che ha sperperato tutto; chi ci rimette il figlio maggiore. Teoricamente, alla luce dei comportamenti umani, l’obiezione ha un suo fondamento, ma nulla sul piano di Dio. È la stessa situazione del padrone che chiama gli operai per lavorare nella sua vigna: pattuisce un contratto e alla fine a quelli delle 5 della sera dà la stessa paga di quelli delle 6 del mattino; accusato d’ingiustizia, risponde che egli è libero di disporre dei suoi beni con generosità «o forse tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-15).
L’anello al dito ha anche un risvolto pubblico: tutti devono vedere che è il padre a reintegrare il figlio, perché d’ora in poi tutti devono riconoscere che quel figlio fuggito senza dignità, con quell’anello rappresenta il padre, e tutti gli devono tributare il rispetto che il padre merita ed esige. Questa investitura nella dignità e nella eredità si completa con la consegna dei «sandali».
I sandali
Nelle case dei nobili, solo gli schiavi vanno scalzi, mentre i padroni portano i sandali ai piedi, segno della loro autorità. Camminare con i sandali significa dominare su ciò che si calpesta, perché essi sono il simbolo della persona libera e non schiava, che esercita il possesso legittimo sui propri averi. Mettere i sandali ai piedi del figlio equivale a restituirgli la libertà totale su tutta quanta la proprietà. Voleva chiedere di essere trattato come un «dipendente», il figlio perduto e ritrovato riceve la dignità di figlio (tunica), l’autorità dell’erede (anello) e la libertà di persona (sandali).
Colui che era diventato «dipendente» dei porci ora si ritrova senza sforzo a essere figlio a tutti gli effetti, uomo a cui il padre ha restituito la dignità, piena fiducia su ogni cosa e totale libertà senza condizioni. Non basta vivere in qualche modo, non è sufficiente vivacchiare, per vivere da figli sono necessarie alcune condizioni: si deve essere figli, avere la dignità, possedere la responsabilità dell’autorità. Il padre non vuole un figlio a mezzo servizio, dimezzato, tollerato: vuole un figlio nella pienezza umana e ufficiale della sua identità e quindi dei suoi affetti.
Nessuno può trattenere qualcun altro a forza o per bisogno: prima o poi scappa da dove è venuto. Il padre lo sa e, se offre al figlio la possibilità di riscattarsi, lo fa senza condizioni, ma con l’amore sconfinato che solo un padre sa nutrire. Gesù è venuto per questo: ci ha portato un vangelo che è «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1:23), perché impariamo a pensare e vivere secondo la mentalità di Dio.
Noi siamo il figliol prodigo
Se ci scandalizziamo del suo modo di essere e agire, siamo lontani dal regno e navighiamo in un confuso mare di religiosità che esprime più i nostri bisogni che il senso della nostra fede nel Dio di Gesù Cristo, «perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Isa 55:8). Tutto ciò ci conduce nel Nuovo Testamento dove Gesù «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13:1), senza condizioni, senza contropartita.
Tutti noi che siamo fratelli di Cristo e apparteniamo al “rimanente”, apparteniamo alla classe del Figliol prodigo, abbiamo fatto i nostri errori e ci siamo pentiti. Abbiamo un invito a far parte della sposa del Cristo. Perciò manteniamoci saldi.
L’articolo contiene citazioni da un post del 1 Marzo 2008 da rivistamissioneconsolata.it “Hai mutato la mia veste di sacco in abito di gioia” di Paolo Farinella
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