
Tecnologie avanzatissime furono evidentemente utilizzate per la costruzione del tempio di Salomone a Gerusalemme. L’arca di Noè, il Tabernacolo e il Tempio di Salomone sono tre costruzioni descritte nel Tanakh con dovizia di dettagli. Le misure del Tempio vengono direttamente da Dio. Sono considerate come il perfetto apice di una “architettura divina” che gli uomini non avrebbero mai potuto concepire ma soltanto ricevere per rivelazione. In ogni caso i problemi relativi a quella costruzione sembrerebbero, se osservati da un punto di vista strettamente umano, semplicemente insolvibili.
Il racconto riporta che, per la costruzione del Tempio, Salomone aveva dato ordini precisi. Secondo la Legge mosaica nessun materiale (pietra, legno, oro, avorio eccetera) doveva essere lavorato con attrezzi di ferro, o metallo nel perimetro del tempio. L’altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto. Nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; e tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro. Di conseguenza, il materiale da costruzione arrivava sul posto già squadrato e rifinito. Così durante i lavori “non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici”. Il primo libro dei Re infatti legge: “In quanto alla casa, mentre veniva edificata, era edificata con pietra di cava già completata. In quanto a martelli e scuri o a ogni arnese di ferro, non si udirono nella casa mentre veniva edificata.” (1Re 6:7; cfr Es 20:25; Dt 27:5-6)
La trilithon di Baalbek
Robert Byron, (1905-1941), uno scrittore inglese di viaggi, scriveva: «Baalbek è il trionfo della pietra, una magnificenza lapidaria il cui linguaggio, ancora visivo, riduce New York a una dimora di formiche. […] Lo sguardo spazia oltre le mura, fino ai ciuffi verdi dei pioppi dai tronchi bianchi; oltre ancora, al Libano scintillante in lontananza di toni violacei, azzurri, oro e rosa. E poi scende seguendo le montagne fino al vuoto: il deserto, solitario mare di pietra. Bevi l’aria vibrante. Accarezza la pietra con mano delicata. Dà il tuo addio all’Occidente, se lo possiedi, quindi volgiti a Oriente, turista.» (La via per l’Oxiana)
Alla base del complesso di Baalbek esiste una gigantesca piattaforma in pietra (88 x 48 m) la cui costruzione costituisce un enigma in quanto neppure con la tecnologia attuale si riuscirebbe a trasportare ed a mettere in loco pietre tanto colossali. Per questa costruzione vennero impiegati enormi blocchi di pietra tagliati: i tre che costituiscono il cosiddetto trilithon, misurano rispettivamente 19,60 m, 19,30 m e 19,10 m di lunghezza, per 4,34 m di altezza e 3,65 m di profondità con un peso di circa 800 tonnellate ciascuno, mentre un quarto blocco, di straordinarie dimensioni (peso stimato di 1200 tonnellate, 21.5 m di lunghezza con una sezione quadrata di 4,30 m di lato) venne abbandonato nella cava. Le origini conosciute delle costruzioni di Baalbek risalgono a insediamenti cananei che gli scavi hanno permesso di identificare come databili all’età del bronzo antica (2900-2300 a.C.) e media (1900-1600 a.C.).
Antiche tecnologie di costruzione
I cronisti cattolici spagnoli al tempo dei conquistadores parlavano di un tempo in cui le terre che venivano colonizzate erano state funestate dai giganti. Fernando de Avendano scrisse: “I vostri antenati dissero che esistevano anticamente certi uomini assai malvagi come può vedersi dalle loro ossa sulla costa di Manta. Secondo le leggende questa popolazione titanica, uomini “grandissimi e alti”, “sodomiti e assassini” arrivò a tali eccessi che “la giustizia divina s’incaricò del castigo e questo si compì in un istante per mezzo d’un fuoco inviato dal cielo che li arse”. Montesinos aggiunge che [cit. in Polia, p. 73] “a memoria del fatto restano le ossa che Dio volle conservare a monito dei posteri. Può vedersi una tibia dell’altezza di un uomo”. [cit. in Mario Polia, p. 72] (Il sangue del condor. Sciamani delle Ande (Xenia, Milano, 1997)
Secondo i frammenti di miti raccolti dall’antropologo Mario Polia nell’area di Huancavelica [Polia, p. 76], si racconta che i giganti si fossero riprodotti a tal punto che ormai la terra non bastava più, e dovettero costruire terrazze per coltivare le parti più impervie dei monti (come si possono ammirare ancora oggi, ad es., nella Valle Sacra di Cusco). Il dio Viracocha, irritato per la loro immoralità, inviò un diluvio d’acqua. Spesso, parlando delle umanità antidiluviane, i miti fanno menzione della loro singolare abilità nel lavorare la pietra e nel costruire fortezze inespugnabili. Secondo la tradizione [Polia, p. 88] “… i gentili avevano sollevato e tagliato quelle moli immense. Dissero che anche a Cuzco il tempio-fortezza di Saqsaywamán, coi suoi blocchi immani, era opera degli auki, gli antenati semidivini che facevano muovere le rocce frustandole, come si riunisce il bestiame”.
Tecnologia demoniaca
Martín de Murua (1590) scrisse che Sacsayhuaman “sembra un’opera di giganti o una muraglia più della natura che dell’arte” [Salazar, p. 50]. I cronisti spagnoli del tempo parlarono di “tecnologia demoniaca” e affermarono che solo una razza di demoni avrebbe potuto erigere mura tanto ciclopiche, composte da rocce talmente pesanti da essere difficilmente trasportabili a certe altezze, che combaciavano perfettamente l’una con le altre, alcune raggiungendo l’incredibile numero complessivo di undici o dodici angoli. Un monaco spagnolo di cui fa menzione Garcilaso raccontò all’autore che [Commentari Reali, libro VIII, p. 301] “non avrebbe mai dato credito ai racconti dei nativi se non l’avesse vista [la fortezza di Sacsayhuaman] con i suoi occhi, perché immaginarla senza vederla è impossibile a dirsi” e che “in realtà pare difficilmente spiegabile come un progetto simile sia stato portato a conclusione senza l’aiuto del Maligno”.
Anche l’autore dei Commentari Reali, dal canto suo, si interroga estasiato sull’enigmatica tecnologia che avrebbe potuto permettere la costruzione di questa misteriosa fortezza. Paragonandola alle sette meraviglie del mondo, concluse che essa è ancora più sconvolgente nella sua abnormità. Se, infatti, la costruzione di imponenti templi formati da pietre regolari quali le Piramidi d’Egitto in fin dei conti si possono spiegare razionalmente, per Sacsayhuaman—rileva Garcilaso [libro VIII, p. 302] —la situazione è ben diversa. “In che modo possiamo spiegare il fatto che gli antichi peruviani sapessero [lavorare] (…) tali enormi blocchi di pietra, più simili invero a pezzi di montagna che non a mattoni da costruzione—e che ci siano riusciti, come ho già accennato, senza l’utilizzo di alcuna macchina o strumento? Un enigma simile non può essere facilmente risolto se non ammettendo un qualche ricorso alla magia”. Umanità antidiluviane, giganti, “gentili” – Axis ✵ Mundi (axismundi.blog)
Il magico Shamìr
Per riuscire nell’edificazione del tempio di Salomone senza l’uso di strumentazione metallica in cantiere secondo la ricercatrice Lia Mangolini l’unica maniera alternativa di lavorare la pietra con quella modalità era di usare il “magico Shamìr”. Narrerebbe la leggenda di come Salomone riuscisse a procurarselo in modo non troppo ortodosso. Il dèmone Asmodeo (che sapeva trovare tutti i tesori nascosti) fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l’Angelo del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico che viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall’uomo. A farla breve, il re Salomone riuscì con l’inganno ad avere lo shamìr, a utilizzarlo e poi riporlo – (era quello l’unico modo di trattarlo correttamente) – in un cestino pieno di crusca d’orzo.
La narrazione sopra riportata è solo una delle molte narrazioni relative allo Shamìr: segno che – malgrado l’incertezza dell’identificazione – a suo tempo era “qualcosa” di ben noto e diffuso. Chiaramente, la leggenda su re Salomone e il gallo selvatico ha soprattutto le caratteristiche di un racconto immaginario. Contiene tuttavia un paio di indicazioni concrete, e inoltre alcune informazioni che potrebbero consentire un collegamento con miti consimili appartenenti ad altri àmbiti culturali, sia geograficamente vicini che inverosimilmente lontani. L’intero collage di citazioni midràshiche di Louis Ginzberg presenta da parte sua alcuni dati fantastici (la creazione dello Shamìr al crepuscolo del sesto giorno, insieme ad altre “creature soprannaturali”; il fatto che Salomone mandò l'”aquila” a prenderlo in paradiso), ma comunque vi dominano anche connotazioni e dettagli curiosamente realistici. Il “magico Shamìr” – A proposito di un’antichissima tecnologia per la lavorazione della pietra senza l’uso di strumenti metallici (cartesio-episteme.net)
L’ambito geografico di diffusione della tecnologia dello Shamìr
Lia Mangolini sottolinea il fatto che l’ambito geografico di diffusione dello Shamìr è assai vasto spaziando dalle rive del Mediterraneo a quelle dell’Oceano Indiano fino all’Atlantico, dove in quanto ad antichità ci si perde nella notte dei tempi. Lo testimonierebbero antichissimi manufatti realizzati con tecniche possibili soltanto grazie alle proprietà dello Shamìr. Una leggenda iraniana narra che il re Zal, una volta salito al trono, risplendeva per la presenza di un’essenza divina che permetteva di scavare le sostanze più dure e forgiare metalli. La ricercatrice scrive che “sull’altopiano anatolico, a Catal Huyuk (la cui età di almeno 8500 anni è documentata oltre che dalla datazione al carbonio 14, da un “murale” che rappresenta l’eruzione – avvenuta nel 6200 a.C. – su quella città del vulcano dalle due cime Hasan Dag), una cultura molto progredita, la quale già praticava la metallurgia del rame e del piombo, comparve all’improvviso.
Sorprendentemente, il minerale più usato, e trattato con notevole perizia tecnologica, era l’ossidiana, che nella “scala delle durezze” di Mohs occupa il settimo posto. Vi pare normale? Ma quel materiale, importato dalle stesse zone, veniva lavorato circa a quell’epoca anche a Gerico dai natufiani proto-neolitici, e ancor prima (fin dal 10.000 a.C.) sui Monti Zagros, a Nimrud Dag, in Armenia, sul Lago Van. Ma è soltanto qualche millennio più tardi, quando improvvisa poco dopo il 4000 a.C. esplose la grande civiltà del “Paese fra i due fiumi”, seguìta dappresso da quella egizia, che ebbe inizio in questa parte del mondo allora conosciuto quella straordinaria produzione di oggetti d’uso ma più che altro di opere d’arte in pietra, che ci lascia tuttora ammirati, ma anche perplessi e sconcertati per la sua incredibile accuratezza in rapporto agli utensili (o almeno a quelli a noi noti) di cui si presume l’impiego.”
Incisioni millimetriche su pietre durissime
Continuiamo a citare dalla scrittrice: “Perché qui, signori miei, si sta parlando di incisioni – figure e scritte – delle dimensioni massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7), sul diaspro (idem), sull’onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in Mesopotamia e in Egitto: iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri. Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l’aspetto del morsetto che necessariamente doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, si è calcolato che quelle pietre le lavorarono con punte resistentissime da mm 0,12. Di che materiale? E di che materiale erano fatti gli strumenti usati per scolpire la statua in diorite di Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni?
O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura cuneiforme che pare impressa nell’argilla o nella cera? Tutti questi manufatti e infiniti altri – meravigliosi nell’aspetto e di fattura perfetta – sembrano eseguiti con la massima facilità. E’ come se la solida pietra fosse semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile. Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica, piuttosto che l’aggressione di un impatto meccanico. Un testo specifico (“Le pietre magiche”, di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto era usato un “punteruolo consacrato”. Ma non riesco davvero a immaginare di che tipo di attrezzo si trattasse.”
Conclusione
Dunque, volendo concludere questo genere di discorso, direi che la leggenda sui rapporti di Salomone con Asmodeo parrebbe alludere all’intervento di forze divine sovrannaturali nella costruzione del tempio. Erano l’equivalente di quelle forze che nel mondo pagano si erano direttamente messe all’opera nella costruzione di mura megalitiche e antichi centri di culto.
Tagliando, muovendo e collocando in sede pietre talmente grandi da risultare impossibili da maneggiare per gli umani, forze particolari entrarono in azione forse anche solo indirettamente trasmettendo agli architetti e alle maestranze tecnologie a noi sconosciute.
Presenze Aliene: Opere impossibili e lo shamir (presenze-aliene.blogspot.com)

