La benedizione di Isacco su Giacobbe

Esaù vende la primogenitura a Giacobbe – Caravaggio

La benedizione del padre Isacco sarebbe venuta, ma più tardi. I figli di Isacco e Rebecca, due gemelli, erano molto diversi. Tra di loro il conflitto iniziò molto presto, fin dal seno materno. Esaù, molto peloso, era un cacciatore, rude, istintivo e piuttosto rozzo, mentre Giacobbe era tranquillo, riflessivo e calcolatore. Al padre Isacco, ormai convinto di essere prossimo a morire, Giacobbe si presenterà camuffato da Esaù, con addosso la pelle dei capretti, carpendone con l’inganno una benedizione a lungo sperata. Come Isacco doveva sapere, la primogenitura era già stata venduta per un piatto di lenticchie. Questa importante transazione si era conclusa con un giuramento solenne da parte del figlio maggiore, Esaù, a favore di Giacobbe, il fratello minore. Restava però ancora una benedizione in serbo da dare a uno dei figli e Isacco l’avrebbe destinata al suo prediletto, il cacciatore.

A partire da Noè, mangiare carne, almeno qualche volta, faceva piacere, ma uccidere un animale provocava un gran senso di colpa. L’animale era sacrificato in forma rituale, mettendo in atto cerimoniali più o meno complessi. La vittima, partecipata con Dio, era offerta come sacrificio o pasto di comunione nel corso di un banchetto in cui la famiglia si riuniva in modo solenne. Con il termine totemismo, va ricordato, si definisce la concezione tipica di popolazioni primitive che attribuivano particolare valore a un animale a cui si sentivano legati come ad un padre, un fratello o uno stretto parente. Si trattava in ogni caso di una discendenza atavica, mitica, ancestrale risalente ad un’epoca antichissima che biblicamente ebbe origine nel giardino di Eden, dopo la trasgressione. Lì un animale fu ucciso a dimostrazione del fatto che sarebbe servito un sacrificio cruento per recuperare l’innocenza perduta. Questo prefigurava il sacrificio messianico.

Antropologia dell’Ottocento

Antropologi dell’Ottocento cercarono nel totemismo la spiegazione circa le origini delle religioni, del rito e dei sacrifici. Vi scorsero perfino un meccanismo di regolazione dei rapporti di parentela quali si stabiliscono con le alleanze matrimoniali. Il totem rappresenterebbe lo spirito del padre che viene sacrificato per i figli, che vigila sul benessere del clan e istruisce i suoi nella vita quotidiana. Essi possono, in virtù della loro appartenenza, stabilire un contatto privilegiato con l’antenato totemico che funge da spirito tutelare. In epoca arcaica l’umano si confondeva con l’animale, il vegetale e la natura e gruppi di giovani sottoposti ai rituali di passaggio si potevano trasformare, grazie a tecniche di manipolazione psicologica e di tipo allucinatorio, in animali selvaggi. Il mito classico è ricco di episodi di metamorfosi in cui cacciatore o ninfa si trasformano in cervo, pianta o in un fiore.

Sacerdoti-sciamani venivano sottoposti a rituali ordalici prima di tornare presso la loro tribù come individui in possesso di speciali poteri magici e di una generale capacità di favorire la fertilità del suolo, degli uomini e delle bestie. Essi acquisivano il linguaggio segreto di animali ed uccelli, l’arte della metamorfosi e apprendevano la capacità oracolare. La magia era una tecnica attraverso cui lo sciamano riteneva di poter dominare le forze della natura. Bisognava perciò conoscere i riti e le pratiche cerimoniali. Tutta la vita acquisiva un valore sacrale. La consultazione di un sacerdote-sciamano costituiva un momento saliente in relazione agli aspetti più importanti della vita collettiva, quali i rituali legati alla fertilità, alla caccia, alla costruzione di abitazioni ed oggetti e le pratiche iniziatiche preliminari al matrimonio. La ritualità magica non era solo un insieme di cerimonie ma una forma complessa di interpretazione della realtà.

La benedizione di Isacco

Fatte le dovute distinzioni, cercheremo di capire in cosa consisteva la benedizione promessa da Isacco al figlio designato. Tale benedizione farà sì che gli siano assicurati vantaggi concreti come “le rugiade dei cieli e i fertili suoli della terra e abbondanza di grano e vino nuovo”. (Ge 27:28) Dunque questo genere di benefici non coincide assolutamente con il conferimento della primogenitura, come generalmente i commentatori ritengono. Si tratta di qualcosa di diverso. Esaù medesimo era consapevole di questa differenza in quanto dichiarava a proposito di suo fratello: “Ha già preso la mia primogenitura, ed ecco, questa volta ha preso la mia benedizione!” (Ge 27:36) Isacco, ormai vecchio, temendo di dover presto morire, pensava di trasmettere la benedizione sacerdotale, che aveva ricevuto da Abramo suo padre (Ge 25:5) al figlio Esaù. Egli immaginava che almeno questo estremo privilegio venisse di diritto al figlio prediletto.

La benedizione sacerdotale era trasmessa di padre in figlio. Così la benedizione era passata da Noè a Sem-Melchisedec (Ge 9:26), il quale aveva similmente benedetto Abramo. In Genesi 15:18-20 si legge: “E Melchisedec re di Salem portò pane e vino, ed era sacerdote dell’Iddio Altissimo. Quindi lo benedisse, dicendo: “Benedetto sia Abramo dall’Iddio Altissimo, Che ha fatto il cielo e la terra; E benedetto sia l’Iddio Altissimo, Che ha consegnato i tuoi oppressori nella tua mano!” Di conseguenza, tramite Isacco, Giacobbe finì per riassorbire in sé non solo il diritto di primogenitura che gli assicurava un ruolo nella genealogia messianica, ma anche la funzione sacerdotale. A sua volta Giacobbe, sul letto di morte, adottò i nipoti Efraim e Manasse, figli di Giuseppe, e li costituì suoi eredi come i figli diretti. (Ge 48:5) Fu Giuseppe a ricevere il diritto di primogenitura ricevendo, tramite i due figli, due parti dell’eredità paterna.

La cecità di Isacco e di Giacobbe

Nel benedire Efraim e Manasse il patriarca Giacobbe, benché cieco, diede la preferenza a Efraim, il minore dei due nipoti, e indicò profeticamente che sarebbe diventato il più grande. Da quando all’epoca di Roboamo il regno fu diviso, Efraim divenne la tribù più importante del regno settentrionale. L’efraimita Geroboamo istituì l’adorazione dei vitelli a Dan e Betel e da tale idolatria la nazione non fu più in grado di uscire. Ecco dunque che Efraim si ritrovò investito di un ruolo sacerdotale ancorché idolatrico.

Giacobbe, come suo padre Isacco, nella vecchiaia fu afflitto dal problema della cecità. Di questa situazione il racconto non da spiegazione, il che, vista l’importanza dei personaggi che ne sono affetti, risulta alquanto strano poiché si tratta di una caratteristica degradante nella successiva sensibilità ebraica se non addirittura la manifestazione di un castigo divino.

 La cecità nel racconto segnala una determinata deficienza morale del soggetto che ne è affetto. Il Signore infatti, in quanto creatore dell’occhio, è colui che può anche provocare la cecità. Dio avvertì la nazione d’Israele che se avesse rifiutato i suoi statuti e violato il suo patto egli avrebbe recato su di loro una febbre ardente, con la conseguente perdita della vista. Inflisse una cecità temporanea ai malvagi uomini di Sodoma. La cecità rendeva inabili per il servizio sacerdotale presso il tempio e il Signore non accettava il sacrificio di un animale cieco. Perché quindi colpire il patriarca, l’uomo che Dio stesso ha designato come guida del suo popolo, con questo marchio indelebile? Il fatto che la trasmissione della benedizione sacerdotale avvenga da parte di un uomo debole, fragile e indegno a favore di un altro uomo come lui imperfetto implica la profonda inadeguatezza dell’uomo a esercitare il ruolo sacerdotale-messianico.

 Il travestimento di Giacobbe

Il modo di prepararsi ad un rito ha un significato ben preciso. L’abbigliamento, il trucco o le maschere servono proprio per entrare nella dimensione sacra del rituale e per entrare nello spirito di quello che si sta per compiere. Già, siccome la mente vuole essere aiutata,per facilitare l’ingresso in una determinata situazione energetica l’abbigliamento e le maschere rappresentano quell’aspetto esteriore che funge da tramite per il mondo dello spirito. L’abito nello sciamanesimo ha una duplice funzione: identifica il tipo di rituale distinguendolo dagli altri e fa cambiare identità allo sciamano facendolo passare da essere umano ad essere spirituale, capace di agire da profeta. Notiamo nel capitolo 27 l’attenzione posta nella vestizione di Giacobbe. Vi si legge: “Rebecca prese poi le vesti di Esaù suo figlio maggiore, le più desiderabili che erano presso di lei nella casa, e le fece indossare a Giacobbe suo figlio minore”. (Ge 27:15-16)

Inoltre gli mise le pelli dei capretti sulle mani e sulla parte senza peli del collo per simulare la pelle villosa di Esaù. Entrato nella tenda del padre con in mano la pietanza di agnello Isacco si stupisce della rapidità con cui tutte le operazioni sono state compiute ed esclama: “Come mai hai fatto così presto a trovarla, figlio mio?” A sua volta Giacobbe: “Perché Geova, il tuo Dio, me l’ha fatta venire incontro”. In questo punto Giacobbe presenta Dio al modo di intendere la divinità di suo fratello Esaù, come un dio totemico che invia la selvaggina al cacciatore. Egli lo presenta come il Signore degli animali. Il suo compito è anche quello di controllare e tutelare gli animali, soprattutto riguardo alla concessione di questi al cacciatore.

Giacobbe era un uomo senza peli e dovette coprirsi della pelle di due capretti per ingannare il padre. Il capro per gli ebrei è l’antico totem, il montone simbolo del padre stesso. Per i Greci il capro è Dioniso, ugualmente il dio sbranato in un rito totemico cannibalistico. Si trattava di un banchetto sacro, il banchetto totemico in cui gli uomini consumano un pasto con Dio sacrificando l’animale totem. In tali circostanze il costume era di grande rilievo. Quando il periodo formativo di uno sciamano era terminato gli veniva trasmesso potere. Era come una sorta di attestato rituale e lo sciamano doveva essere completamente abbigliato. Ora qualcuno vorrà distinguere il sacerdozio ebraico dallo sciamanesimo. Tuttavia bisogna ammettere che all’inizio le pratiche rituali ebbero origini comuni e che il primo abito totemico appartenne ad Adamo.

L’abito totemico

Esaù venne alla luce “rossiccio e tutto come un mantello di pelo.” (Ge 25:25) Simili mantelli, in ebraico sono descritti come ʼaddèreth. La Settanta in 1 Re 19:13 usa il sostantivo greco melotè, (che significa pelle di pecora o qualsiasi ruvida pelle lanosa). Mantelli di questo genere erano indossati dai profeti. Questo fa pensare che si trattasse di un indumento di pelle col suo pelo, simile a quello indossato da certi beduini. La descrizione che Paolo fa di certi uomini che ‘andavano in giro in pelli di pecora, in pelli di capra’, potrebbe riferirsi all’abbigliamento dei profeti. (Ebrei 11:37) Anche Giovanni il Battezzatore era vestito di pelo di cammello come descritto in Marco 1:6. A quanto pare la veste di pelo era un identificativo tipico. Quando il re Acazia sentì descrivere “un uomo che possedeva una veste di pelo” (2Re 1:8) capì subito che si trattava di Elia.

Quanto detto può aiutarci a comprendere meglio la diversa natura di Esaù e del fratello, come anche il simbolismo dell’abbigliamento di Giacobbe in quella occasione. La nascita dei due figli di Isacco aveva un forte valore sia profetico che sacerdotale. Quasi come se si dovesse verificare un raffinamento. Si trattava del passaggio da una spiritualità ancora animistica e di tipo tribale a una concezione più raffinata ed astratta della divinità. E, non ultimo, della funzione sacerdotale. In ogni caso nella circostanza che stiamo considerando Giacobbe indossò il vestito di pelle di suo fratello. Era un abito tribale, con forti accenti animaleschi, con inserti e con frange di tipo sciamanico. Inserti e frange che certamente permisero a Giacobbe di camuffare per bene la sua pelle liscia sotto la pelle del capretto. Evidentemente l’abito di Esaù era di pelle, non era in tessuto raffinato, perché questo avrebbe immediatamente rivelato l’inganno.

L’inganno

La seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi mette in luce l’inganno cui vanno incontro quelli che non hanno preso a cuore l’amore per la verità. Costoro sono sviati con portenti di menzogna. E non solo, ma “con ogni ingiusto inganno per quelli che periscono, come retribuzione perché non hanno accettato l’amore della verità per essere salvati. E per questo Dio lascia andare da loro un’operazione di errore. Perché credano alla menzogna, affinché siano tutti giudicati perché non hanno creduto alla verità ma hanno preso piacere nell’ingiustizia.” (2Tsl 2:29-12) Anche nei confronti di un re malvagio come Acab Geova ricorse all’inganno. Questo si legge in 1Re 22:20-21. “Geova diceva: ‘Chi ingannerà Acab, perché salga e cada a Ramot-Galaad?’ E l’uno diceva una cosa e l’altro ne diceva un’altra. Infine uno spirito uscì e stette dinanzi a Geova e disse: ‘Io stesso lo ingannerò’.”

Un inganno simile si verifica nel caso della benedizione mancata di Esaù. Immaginare che la primogenitura e il potere sacerdotale finissero in mani così diverse sarebbe una vera e propria contraddizione, una situazione aberrante. Due figli così diametralmente opposti non avrebbero mai potuto convivere pacificamente né collaborare. Ecco che Rebecca fu guidata da Dio ad escogitare l’inganno. E l’inganno ebbe successo. Indubbiamente Rebecca aveva visione spirituale mentre Isacco in quel frangente era accecato dalla paterna predilezione per un figlio malvagio. Naturalmente ci furono conseguenze. Rebecca dovette separarsi da Giacobbe che Esaù minacciava di voler uccidere. Giacobbe si mise in viaggio per Haran in cerca di moglie e forse Rebecca non lo vide mai più. Giacobbe aveva circa settantasette anni quando giunse a casa di suo zio, Labano. Isacco si riprese dal suo periodo di malattia e visse ancora più di quarant’anni. Se ricuperasse la vista non viene specificato. (Ge 35:27-30)



    

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