Chi è la Sapienza di Proverbi 8?

hands of god and adam, detail from the creation of adam, from the sistine ceiling, 1511 fresco post restoration photo by art images via getty images

In quanto alla Sapienza di Proverbi 8, chi è quella donna? Il soggetto della trattazione che qui mi accingo a sviluppare è colei che “Geova stesso […] produsse come il principio della sua via, la prima delle sue imprese di molto tempo fa.”  Si tratta di una donna che fu “insediata, dall’inizio, da tempi anteriori alla terra”, e che si dilettava “delle cose relative ai figli degli uomini” (v.22,23,31). La prima volta che viene menzionata nelle Scritture è in Eden dove Genesi 3:15 legge: “E io porrò inimicizia fra te e la donna e fra il tuo seme e il seme di lei. Egli ti schiaccerà la testa e tu gli schiaccerai il calcagno”. Chi è questa donna? I versetti di Proverbi 8:1-3 la presentano in relazione alla Parola, come qualcuno desideroso di comunicare un messaggio a chiunque abbia il desiderio di accoglierlo.

Per questa ragione riempie di sé gli spazi dove l’uomo comunemente vive: gli incroci delle strade (v. 2) e le porte della città (v. 3), i luoghi di mercato, di incontro e di dialogo. Questa donna va messa in relazione con la Parola. “In principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era un dio. Questi era in principio con Dio. Tutte le cose son venute all’esistenza per mezzo di lui, e senza di lui neppure una cosa è venuta all’esistenza”(Gv 1:1-3). Come ribadito anche in Colossesi 1:16-17, al momento della creazione è semplicemente la Parola a creare l’acqua, i cieli e la terra, la luce, la distesa del firmamento, l’asciutto, o la vegetazione. In principio tuttavia, per quanto questa divinità giochi un ruolo essenziale, l’artefice che viene nominato è un meno definito Elohìm, forma plurale di Eloah.

Elohìm

Il termine Elohìm sarebbe utilizzato nella sua forma plurale per riferirsi ad una entità singola ed esaltare la maestosa grandezza di Dio. Ma potrebbe anche indicare “Dio e gli angeli“. Ciò che i commentatori spesso sottolineano in questa presentazione è il plurale, come se si presentassero un po’ più genericamente degli Dei. In definitiva chi sono questi? Geova, Gesù, forse gli angeli? In un articolo dal titolo Un concetto religioso “trasversale”: è la Parola divina che porta ogni cosa all’esistenza (https://swamirobertoimpronte.blogspot.com/2018/07/un-concetto-religioso-trasversale-e-la.html) con sorpresa trovo un’informazione inattesa, di cui non avevo alcuna nozione. Vi si legge: “In vari brani della tradizione vedica Prajapati (cioè il “Signore della Creazione”) viene posto in relazione con la divina Parola (in sanscrito Vāc) in un modo “assonante” con l’Incipit giovanneo, al punto che i due Testi sacri possono essere letti praticamente in parallelo:

Lo stesso articolo prosegue poi dicendo: “Gettando poi uno sguardo nei Brāhmana* (i testi religiosi appartenenti alla letteratura vedica, scritti in sanscrito nel IX-VI a.C.) il concetto della divina Parola creatrice viene così ribadito:
« Questo [in principio] era il solo Signore dell’universo. La sua Parola era con lui. Questa Parola era il suo secondo. Egli contemplò. Egli disse: «Libererò questa Parola, così che ella produrrà e creerà tutto questo mondo» (Tāndya-mahā-brāhmana, XX,14,2).
In altri testi, leggiamo poi che Vāc (la Parola divina) “è la prima manifestazione dell’Assoluto, dal quale scaturì” (Cfr.Brhadāranyaka-Upanisad I,3,21; IV,1,2) … Vāc è veramente “il grembo dell’universo” [Aitareya-brāhmana II,38 (X,6)] perché “per mezzo di quella sua Parola, per mezzo di quel Sé, egli (Dio) creò tutto questo, tutto ciò che c’è” (Śatapatha-brāhmana X,6,5,5).
Anche qui, mettendo in parallelo la conclusione di questo brāhmana con il 3° versetto dell’Incipit giovanneo, troviamo una evidente corrispondenza:

Vāc, la Parola

Vāc, sostantivo femminile dal significato di “parola”, “voce”, o “suono”; come nome, identifica, nei Veda, la dea della Parola. Nell’Induismo la parola, sia essa parola mentale, orale o rivelata, è sempre oggetto di attente speculazioni filosofiche. La parola umana non è considerata alla stregua di un semplice strumento per comunicare. Questo perché è tramite la parola, in quanto mezzo di comunicazione verbale, che è possibile ricevere e trasmettere la rivelazione. D’altronde, prima che in forma scritta, e questo non solo in India, i testi sacri furono tramandati oralmente per generazioni. Ma la parola non è soltanto il mezzo col quale la rivelazione (śruti) diviene accessibile. Uno studioso dei Veda scrive: Vāc è proprio la Parola totale vivente, vale a dire la Parola nella sua interezza compresi i suoi aspetti materiali. E’ il suo riverbero cosmico, la sua forma visibile, il suo suono, il suo significato, il suo messaggio.

«Vāc è più che mero significato o suono privo di senso; è più di una semplice immagine o veicolo di determinate verità spirituali. Essa non contiene rivelazione, è rivelazione. Era al principio. È l’interezza della śruti. La śruti è vāc.» (Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, vol. I, p. 120) In uno dei Brāhmaṇa più antichi c’è un passo che anticipa l’incipit del Vangelo di Giovanni e mette in evidenza il ruolo primario della Parola nella creazione del mondo: «Questo [in principio] era il solo Signore dell’universo. La sua Parola era con lui. Questa Parola era il suo secondo. Egli contemplò. Egli disse: «Libererò questa Parola, così che ella produrrà e creerà tutto questo mondo». (Tāṇḍya Mahā Brāhmaṇa, XX, 14, 2; citato in Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, vol. I, p. 145) Nel periodo post-vedico, la Dea Vāc verrà assimilata a Sarasvati, Dea della Sapienza rendendo manifesto l’aggancio con la Bibbia.

In principio

«Non c’era la morte allora, né l’immortalità. Non c’era differenza tra la notte e il giorno. Respirava, ma non c’era aria, per un suo potere, soltanto Quello, da solo. Oltre a Quello nulla esisteva» (Ṛgveda, X,129,2). «Invisibile, inafferrabile, senza famiglia né casta, senza occhi né orecchie, senza mani né piedi, eterno, onnipresente, onnipervadente, sottilissimo, non soggetto a deterioramento. Esso è ciò che i saggi considerano matrice di tutto il creato. Come il ragno emette [il filo] e lo riassorbe, come sulla terra crescono le erbe, come da un uomo vivo nascono i capelli e i peli, così dall’Indistruttibile si genera il tutto.» (Muṇḍaka Upaniṣad, I,1,6-7) C’era “Quello”, soltanto “Quello”, ma chi, che cosa?  Un Motore intelligente, pura energia, la Mente, quella che dall’antichità viene definita Anima mundi, anima universale. Ma Anima non è Spirito. Genesi 1:2 riferisce che “lo Spirito di Dio si muoveva sulle acque”.

«In principio questo universo non era né Essere né Nonessere. In principio, in verità, questo universo esisteva e non esisteva: solo la Mente esisteva. Questa Mente non era, per così dire, né esistente né non-esistente. Questa Mente, una volta creata, desiderò di divenire manifesta… – Quella Mente allora creò la Parola. Questa Parola, una volta creata, desiderò di divenire manifesta, più visibile, più fisica. Cercò un sé. Praticò una fervida concentrazione. Acquisì una sostanza. Essa era i trentaseimila fuochi del suo stesso sé, fatti della Parola, costituiti dalla Parola… Con la Parola essi cantarono e con la Parola essi recitarono. Qualunque rito si compia nel sacrificio, qualunque rito sacrificale esista, esso è compiuto dalla sola Parola… – Quella Parola creò il Respiro Vitale.» (Śatapatha Brāhmaṇa X, 5, 3, 1-5; citato in Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, vol. I, p. 146) Respiro equivale a Spirito, Ruach.

Sakti e Kundalini

Come termine, śakti («energia», «potenza») indica, nell’Induismo, il potere di una Dea di dare luogo al mondo fenomenico e al piano cosciente della creazione. Śakti indica l’Energia divina femminile personificata. Un’energia tutt’altro che accomodante ma indomita, sulla difesa, aggressiva. Senza Śakti gli Dèi sono inattivi, è Śakti che continuamente trasforma gli elementi dell’universo, rappresentando quindi l’energia del cosmo. «Quell’unico, incolore, il quale molteplicemente, usando della sua potenza [śakti], innumerevoli colori crea a un fine destinato, colui dal quale all’inizio tutto nasce e nel quale alla fine tutto si risolve, costui possa provvederci di felice intendimento.» (Śvetāśvatara Upaniṣad IV, 1; citato in Upaniṣad antiche e medie. A cura e traduzione di Pio Filippani-Ronconi, riveduta a cura di Antonella Serena Comba, Universale Bollati Boringhieri, Torino, 2007.) Un aspetto della Sakti è Kundalini, presente nel corpo umano, come una divina energia che risiede in forma quiescente in ogni individuo.

«Questa potenza è chiamata suprema, sottile, trascende ogni norma di comportamento. Avvolta intorno al punto luminoso del cuore (bindu), all’interno giace nel sonno, o Beata, in forma di serpente addormentato e non ha coscienza di nulla, o Umā. Questa Dea, dopo aver immesso nel grembo i quattordici mondi con la luna il sole i pianeti, cade in uno stato di obnubilamento come di chi è offuscato dal veleno. È risvegliata dalla suprema risonanza naturale di conoscenza, [quando] è scossa, o Eccellente, da quel bindu che sta nel suo grembo. Si produce infatti uno scuotimento nel corpo della Potenza con un impetuoso moto a spirale. Dalla penetrazione nascono per prima i punti splendenti di energia. Una volta levata Essa è la Forza sottile, Kuṇḍalinī.» (Tantrasadbhāva, f.11b linea 4 – f.12b linea3; citato in Kṣemarāja, Śivasūtravimarśinī, commento a II.3; Vasugupta) Kuṇḍalinī, in ultima analisi, non sarebbe che uno degli aspetti di Dio.

Parvati

Nello shaktismo, una delle maggiori denominazioni dell’induismo, la Devi (dea) suprema è vista come energia e potere creativo, compagna di Shiva. Essa detiene il potere base della creazione dell’universo, dotata della facoltà di creare e distruggere. Parvati è la moglie di Shiva, la reincarnazione di Sati, sua prima moglie, che, resasi conto di essersi sposata contro il desiderio del padre, si era gettata nel fuoco. Il nome Parvati significa “montagna”. Essa deriva il nome dall’essere figlia di un re, Parvat, personificazione dell’Himalaya. È l’emblema della conoscenza divina e la madre del mondo, rappresentata da uno Yoni, utero universale. Si presenta come sakti o potere essenziale, supremo Brahman, anima universale. Nella mitologia Indù in lei si concentra il potere di Shiva. Questi due, Shiva e Parvati, sono come identici, una divinità al tempo stesso maschile e femminile. Parvati è perfino considerata trascendente rispetto a Shiva, un essere supremo.

Cercando di stabilire i possibili collegamenti tra Oriente e Occidente, a partire dagli scritti sacri della tradizione Induista per finire con le Scritture ebraiche, faremo luce su certi aspetti interni al rapporto tra Geova e il Figlio. Considerando Giovanni 1:1-3 e Genesi 1:1-3, noteremo dei paralleli. Attraverso la Parola, cioè il Cristo, furono fatte tutte le cose, quindi Egli era già attivo “in principio”, alla creazione dei cieli e della terra. In quel momento il Cristo era lì, mentre lo “Spirito di Dio” (Ruach Elohim) si muoveva sulle acque. In Apocalisse 1:8 leggiamo: “Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore (Kurios o Theòs) Dio, Colui che è (ho on), che era (ho en) e che viene (ho erchomenos), l’Onnipotente (ho Pantokrator)”. Essere l’Alfa e l’Omega significa svolgere un ruolo comunicativo affine a quello della Parola. Infatti le lettere dell’alfabeto non sono altro che un mezzo attraverso cui ci esprimiamo.

In ogni caso Gesù dichiarava: “Il Padre è maggiore di Me.” (Gv 14:28)

L’Alfa e L’Omega

Ci sono versetti nelle Scritture in cui è obiettivamente difficile distinguere tra il Padre e il Figlio. Similmente risulterebbe impossibile svelare l’identità precisa della divinità che si cela dietro alla dichiarazione: “Io sono l’Alfa e l’Omega”. Tutto viene lasciato nell’incertezza e la commistione tra i due, Geova e Gesù, appare strettissima. Si considerino Rivelazione 1:4, dove si parla di “Colui che è e che era e che viene”, o Rivelazione 4:8 dove si legge delle creature che dicono: “Santo, santo, santo il Signore Dio (Kurios o theòs), l’Onnipotente (ho pantokrator)Colui che era (ho en), che è (ho on) e che viene (ho erchomenos)”. Anche il versetto 4:11 non ci illumina completamente nel dire: “Degno sei, Signore, Dio nostro, (oh Kùrios kaì oh Theòs umòn) di ricevere la gloria e l’onore e la potenza, perché tu creasti tutte le cose…”. Infatti anche Gesù svolse una funzione creatrice.

Apocalisse 22:12 individua il Kurios o Theòs come “il primo e l’ultimo”. Se consideriamo il primo e l’ultimo versetto delle Scritture, cioè Genesi 1:1 e Rivelazione 22:21, noteremo che entrambi alludono al Cristo, in Genesi perché Gesù è l’artefice della creazione. L’Apocalisse si chiude con le parole: “L’immeritata benignità del Signore Gesù Cristo [sia] con i santi.” Quindi alla chiusura delle Scritture troviamo il Cristo. Egli è Colui che era, che è e che viene. Viceversa il Padre è innanzitutto Colui che è, (ho on). Il nome che Dio rivela a Mosè in ebraico suona come אֲשֶׁר אֶהְיֶה‎?ʾehyeh ʾašer ʾehyeh, e io sono colui che sono è la traduzione italiana più comune. Essere sarebbe certamente il nome più appropriato di Dio risultando il più vasto e il più universale dei nomi divini. Il nome ebraico di Dio YHWH mostrerebbe qualche somiglianza con una forma arcaica di “Egli è”.

Dio come Motore

Secondo Aristotele il divenire è tale per cui ogni oggetto è mosso da un altro, questo da un altro ancora, e così via a ritroso, ma alla fine della catena deve esistere un motore immobile, da cui derivi il movimento iniziale ma che a sua volta non sia mosso da altro, altrimenti la catena di cause ed effetti proseguirebbe all’infinito senza mai arrivare ad una causa prima. Dio è la causa prima di ogni movimento: Egli infatti è “motore” perché è la meta finale a cui tutto tende, “immobile” perché causa incausata, essendo già realizzato in sè come «atto puro». La caratteristica del suo essere “puro” dipende dal fatto che in Dio, come atto finale compiuto, non vi è la minima presenza della materia, la quale è soggetta a continue trasformazioni e quindi a corruzione.

Nella Metafisica (XII (Λ), 1072, b 9-30), Aristotele scrive: «Il primo motore dunque è un essere necessariamente esistente, e in quanto la sua esistenza è necessaria si identifica col bene, e sotto tale profilo è principio. […] Se, pertanto, Dio è sempre in uno stato di beatitudine, che noi conosciamo solo qualche volta, un tale stato è meraviglioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore essa deve essere oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio, è appunto, in tale stato!» La divinità non può inoltre avere contatti né interessarsi del mondo («esiste una sostanza immobile, eterna e separata dalle cose sensibili…essa è impassibile ed inalterabile» Metafisica, 1073a 3-14): essendo una realtà somma non può occuparsi, sminuendosi, di una realtà inferiore; quindi egli agisce ma come «oggetto di desiderio e amore», come la cosa amata attira l’amante.

ἐγώ εἰμι ὁ ὤν “ego eimi ho on“, “Io sono l’ESSERE”.

Nella Vita di Mosè (1:75) Filone Alessandrino, parafrasando la risposta di Dio a Mosè in Esodo 3:13-14 circa il nome da riferire al popolo, scrive: “E Dio disse, “Prima di’ loro, ‘Io sono (ego eimi) L’ESSERE’ (ho ón, participio presente nom. m. del verbo “essere”) che, quando hanno imparato che esiste una differenza tra L’ESSERE e quello-che-non-è (mè óntos), si può loro insegnare anche che non esiste alcun nome in assoluto che possa essere correttamente assegnato a Me (ep’ emoû kuriologeîtai), al quale (hôi) solo (mónôi) appartiene (prósesti) l’esistenza (tò eînai). Nell’ebraico biblico, ehyeh è la prima persona singolare dell’imperfetto di “essere”. In base alle regole grammaticali, la forma verbale utilizzata in ebraico è traducibile col tempo passato, presente e futuro, indicando una verità atemporale, che non nasce, non muta e non muore. Tale è Dio.

 Dio ha anche diversi titoli, per esempio Adonai e Kyrios. Un tipico esempio di come sia obiettivamente difficile distinguere tra Geova e Gesù lo troviamo in Isaia capitolo 6, citato a sua volta nel Vangelo di Giovanni 12:37-41, dove si legge: Ma benché (Gesù) avesse fatto davanti a loro molti segni, non riponevano fede in lui, così che si adempì la parola del profeta Isaia, che disse: “Κύριε, chi ha riposto fede in ciò che ha udito da noi? E in quanto al braccio di Κυρίου, a chi è stato rivelato?” La ragione per cui non potevano credere è che di nuovo Isaia disse: “Ha accecato i loro occhi e ha indurito il loro cuore, affinché non vedano con gli occhi e non intendano il pensiero col cuore e non si convertano e io non li sani”.  Isaia disse queste cose perché vide la sua gloria e parlò di lui.”

Una visione del profeta Isaia

Nel capitolo 6 di Isaia, come pure in altri luoghi delle Scritture, si nota una certa alternanza, perfino identità tra Geova e Adonai, che qui, nell’interpretazione del vangelo di Giovanni, rappresenta il Cristo. Adonai compare 3 volte, ai versetti 1, 8 e 11. Viceversa anche il tetragramma compare 3 volte ai versetti 3, 5 e 12 facendo sempre riferimento alla stessa persona, altrimenti indicata come Adonai, e con cui avviene il dialogo. Dato che Giovanni, parlando di Gesù, dice chiaramente: “Isaia disse queste cose perché vide la sua gloria e parlò di lui” possiamo immaginare una certa identificazione, talvolta quasi coincidenza tra Geova e Gesù. Della Sapienza in Prov 8:22 si legge: “Geova stesso mi produsse come il principio della sua via, la prima delle sue imprese di molto tempo fa.”

In conclusione, come più volte prefigurato nelle mitologie di tutti i popoli, potremmo perfino immaginare la relazione tra il Padre e il Figlio come una relazione di tipo coniugale. Fin dall’inizio, in Genesi 3:15, si fa esplicito riferimento a una donna e anche la Sapienza è un’entità femminile. In più luoghi Gesù disse: “Io e il Padre siamo Uno”.(Gv 10:30,38) Il Padre e il Figlio hanno una relazione multipla, sfaccettata, poliedrica, che noi esseri umani non potremo mai scandagliare completamente. Ecco perché in Giobbe 26:14 si legge: Ecco, questi sono i margini delle sue vie, E qual sussurro di una questione si è udito riguardo a lui! Ma del suo potente tuono chi può mostrare intendimento?”

Dio si manifesta come un essere trino?

Cercando di trarre le possibili conclusioni, la natura divina potrebbe configurarsi, a grandi linee, in questa maniera: lo Spirito Santo sarebbe assimilabile a quell’energia primordiale che Aristotele individuava come “Primo Motore”. Di lì trarrebbe origine il movimento del Primo Mobile che trascina le stelle della cupola celeste. Da questo potente Spirito, pura energia, emana la prima divinità, Colui che nella Bibbia si rappresenta col tetragramma יהוה (YHWH). Lui, Geova, come prima delle sue imprese, generava (come con dolori di parto) la Sapienza o Logos. Oltre non mi sembrerebbe possibile andare.

Infatti, spiegare l’argomento della trinità era un’impresa impossibile già ai tempi di Agostino che un giorno, in riva al mare, meditava sul mistero della Trinità, volendolo comprendere con la forza della ragione. S’avvide allora di un bambino che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Incuriosito dall’operazione ripetuta più e più volte, Agostino interrogò il bambino chiedendogli: «Che fai?» La risposta del fanciullo lo sorprese: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant’Agostino spiegò pazientemente l’impossibilità dell’intento ma, il bambino fattosi serio, replicò: «Anche a te è impossibile scandagliare con la piccolezza della tua mente l’immensità del Mistero trinitario». E detto questo sparì.

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